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  • Il laboratorio vocale dell’urban pop italiano: perché GIVO è diventato sta diventando un riferimento

    Una nuova generazione di artisti, negli ultimi tempi, sta rinegoziando il rapporto con la propria voce: non solo metaforicamente, ma anche in senso letterale. GIVO, autore reggiano attivo nella scena da diversi anni, è tra i primi a trasformare questo passaggio in un processo creativo concreto, utilizzando una voce generata tramite intelligenza artificiale modellata sul proprio timbro naturale. Una fase preparatoria, supportata da studio e lavoro mirato, pensata per accompagnare l’ingresso della sua voce reale nell’esecuzione dei brani che firma.

    Questa scelta non alimenta il dibattito già esausto sui “cantanti sintetici”, ma introduce un tema diverso, più attuale e più complesso, quello della costruzione dell’identità sonora come percorso, anziché come punto di partenza.

    L’aspetto più rilevante sta nel modo in cui GIVO usa questo passaggio. La voce generata non vuole essere una firma stilistica, ma un luogo di lavoro, un ambiente in cui testare sfumature, intenzioni, respiri, finché la sua voce naturale non sarà pronta a sostenerli.

    E c’è un altro elemento che rende questa scelta interessante per chi osserva la discografia dall’interno: GIVO arriva dalla scrittura e rivendica il valore dell’autore come figura autonoma, distinta dall’interprete. La voce sintetica diventa così una cerniera temporanea che gli permette di dare forma ai brani senza forzare un’identità vocale che sta ancora costruendo, mostrando come si possa scrivere per sé senza obbligatoriamente incarnare subito ciò che si firma, e senza togliere dignità al ruolo degli interpreti.

    La sua direzione cambia la prospettiva abituale, perché non parte dal timbro per costruirgli attorno un suono, un’immagine, un intero progetto, ma lascia che sia la scrittura a indicare quale voce dovrà sostenerla. Un metodo che, pur essendo parte del lavoro quotidiano di molti autori, raramente viene portato al centro del discorso. GIVO lo mette in luce dentro un contesto urban ed evita che resti un passaggio tecnico, rendendolo un’occasione per interrogarsi su come prende forma l’identità vocale di chi scrive.

    Negli ultimi due anni, l’ingresso dell’intelligenza artificiale nel campo vocale è diventato uno dei fronti più discussi dell’industria musicale internazionale. L’IFPI, nel suo Global Music Report 2024, segnala una crescita netta dei progetti che integrano processi vocali avanzati, soprattutto nelle scene urban e nelle produzioni indipendenti, dove la voce viene trattata come un materiale su cui lavorare e non come un elemento immutabile. Analisi parallele — da Loud & Clear di Spotify ai dossier “Music in the AI Era” di Goldman Sachs — confermano questa direzione: la definizione dell’identità vocale non coincide più necessariamente con la voce biologica dell’artista, ma entra in un’area intermedia in cui tecnologia, scrittura e ricerca timbrica dialogano.

    Una zona che in Italia resta poco esplorata e che rende il caso di GIVO particolarmente interessante anche per chi osserva il mercato da un punto di vista culturale e non solo musicale.

    Il suo nuovo singolo, “Paranoia Chic”, rappresenta il punto di sintesi di questo discorso. L’incipit — «Sto bene ma solo in apparenza» — introduce un testo fatto di immagini brevi. Lacrime che “sanno di Chanel”, “ghiaccio negli occhi”, “una città che ha perso ogni blink” sono tutte metafore volte a descrivere più uno stato mentale che una storia, e che si inseriscono perfettamente nel percorso che l’artista sta costruendo da mesi: una scrittura che riporta ciò che sente quando lo sente, onesta rispetto al momento in cui nasce.

    Il brano, che si collega ai capitoli precedenti — “Neve sulle Nike”, “Messaggi alle 2”, “Fumo e Sirene” — forma un’evoluzione coerente in cui solitudine, amori intermittenti e storie quotidiane occupano un proprio spazio.

    La parte più rilevante rimane però la questione vocale: un artista che usa la sintesi vocale per modellare il proprio timbro e arrivare, con maggiore consapevolezza, alla propria voce reale. Non si tratta di un espediente tecnico, ma di un’apertura a un tema nuovo nel comparto musicale italiano:

    come cambia la percezione dell’autorialità quando la voce non è più solo uno strumento ma un territorio da raggiungere; una meta e non un presupposto?

    GIVO, con i suoi brani, apre una discussione più ampia su rappresentazione, controllo di sé e sul modo in cui oggi un artista costruisce il proprio suono, collocandosi nel punto in cui scrittura, immaginario e ricerca vocale convergono.

    In studio, mentre riascolta le tracce isolate della sua voce sintetica e annota sul telefono le variazioni da provare nel take successivo, si legge con chiarezza la direzione che sta seguendo: la voce non come punto di partenza, ma come esito di un lavoro che ha bisogno di tempo, tentativi, strati successivi. E lì, in quel margine tra provvisorietà e intenzione, si sta formando la sua cifra distintiva.

  • Spose bambine, rituali antichi e identità negate: IBLA, dopo Amici e l’ombra lunga di Rosa Balistreri, riscrive i destini assegnati in “Rituale”

    Una ragazza di sedici anni, promessa a un uomo che non ha scelto, il destino già scritto da altri, il silenzio come unica lingua concessa. Non è una scena d’archivio etnografico, è un’immagine antica che torna a bussare, ruvida come la pietra, alle porte della contemporaneità. Ed è il punto di partenza di “Rituale”, il nuovo singolo di IBLA prodotto da James & Kleeve e Salvo Scibetta per The Orchard.

    Nata ad Agrigento, IBLA – al secolo Claudia Iacono – negli ultimi dieci anni ha portato la voce coraggiosa, politica, primigenia di Rosa Balistreri sui palchi italiani ed europei, dai teatri siciliani alle collaborazioni con Treccani e alla notorietà raggiunta con la partecipazione ad Amici nel 2021. Oggi depone il ruolo di tramite per diventare origine: non più solo custode e interprete, ma autrice del proprio lessico musicale, di un racconto popolare riscritto in voce presente, dove il folklore del futuro non è un’idea ma una lingua in formazione. La continuità viene riformulata, stratificata per essere tramandata in un altro codice, attraverso un passaggio di consegne che avviene per trasformazione anziché per replica.

    Per secoli, in Sicilia come in altre ampie zone del Mediterraneo, il matrimonio era alleanza tra famiglie, non unione tra partner che condividono lo stesso sentimento reciproco: un patto economico, sociale, territoriale, siglato spesso sul corpo delle figlie. Oggi la geografia cambia ma lo schema permane: secondo UNICEF, nel mondo sono più di 640 milioni le donne che vivono le conseguenze di matrimoni contratti prima dei 18 anni — un fenomeno che, soprattutto in vaste aree dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia meridionale, è ancora legato a decisioni familiari, pressioni comunitarie, accordi economici, codici d’onore, tradizioni vincolanti. Non è una linea di demarcazione tra epoche, ma un filo ininterrotto di consuetudini che si aggiornano, si travestono, si spostano e raramente scompaiono.

    IBLA non ha mai considerato il passato come una teca, ma come linfa, radice, forza germinativa. Un crocevia di logiche ancestrali, un sistema di lettura del mondo retto da soglie porose tra visibile e invisibile. In “Rituale”, questo principio all’apparenza astratto, prende forma e diventa materia udibile, spazio in cui irrompe l’eco di un rito di magia popolare siciliana, quello praticato un tempo dalle magare dell’entroterra per intrecciare due destini, attraverso invocazioni sussurrate e formule d’amore tramandate. È un frammento del pensiero che considerava il mondo un’unica trama, dove il sacro convive col pane quotidiano, e il canto, il sortilegio e la sopravvivenza abitano la stessa frase.

    La vicenda della sposa bambina apre alla domanda cardine del brano:

    quanto delle scelte che chiamiamo nostre nasce davvero da noi?

    È qui che il pezzo dilata i confini dell’episodio storico e si sposta sul terreno della condizione, dell’eredità invisibile di imposizioni, aspettative, ruoli; retaggi culturali ricevuti come destino, assorbiti come consuetudini e mai davvero interrogati.

    IBLA scardina il punto in cui la tradizione smette di essere fondamento e diventa recinto, in cui l’appartenenza si converte in prescrizione, in cui l’identità somiglia più a un perimetro assegnato che a un territorio scelto. “Rituale” mette allo scoperto il momento in cui una donna riconosce il copione, lo sfila dalle mani altrui e si domanda, per la prima volta, se la propria vita stia procedendo per voce propria o per volontà altrui. Un cambio di asse dove l’adesione automatica si incrina, i modelli assorbiti senza verifica cominciano a cedere, l’obbedienza culturale smette di essere un riflesso e diventa finalmente visibile. Perché i cambiamenti iniziano così: con una crepa microscopica nel copione, con un pensiero che non rientra nei ranghi, con una domanda che continua a presentarsi finché il muro non si accorge di esistere.

    Il suono fa lo stesso lavoro del testo: mescola, disobbedisce, fonde. Tamburi arcaici, tonalità folkloriche e invocazioni cerimoniali isolano e convivono con bassi elettronici, texture digitali, tagli ritmici di matrice urban. A grattare il perimetro del genere, ci sono il canto tellurico di IBLA e una drammaturgia vocale che porta la lingua del rito fuori dal suo uso originario, la prende in prestito e la reinventa altrove.

    «Ho scritto “Rituale” per capire dove iniziavo io e dove finivano le voci degli altri – spiega IBLA -. Le scelte ereditate, le regole respirate come aria, le gabbie scambiate per destino: questo brano è il punto in cui ho detto basta. La libertà non si aspetta, si prende. E inizia quando smettiamo di confondere la nostra voce con l’eco delle istruzioni altrui.»

    Nel momento in cui un idioma nato per legare, assegnare, vincolare, viene sottratto al suo scopo originario e riadoperato per nominare un’altra possibilità, cambia funzione. Anziché venir rievocato come cifra identitaria, viene ripreso come alfabeto: un vocabolario di simboli, sonorità e formule che IBLA sposta dal terreno del destino scritto a quello della presa di parola. Un metodo antico di leggere il mondo che torna, riposizionato, a dire altro.

    Il percorso di IBLA, in questo senso, non riguarda un’emancipazione privata che si auto-assolve, ma la riapertura di un luogo emblematico in cui le storie individuali e i codici culturali si toccano, si riconoscono, si scambiano di proprietà. Il rito non appartiene più al passato che dirige, ma al presente che interroga. La magia, la ripetizione, la formula non sono reliquie, ma diventano strumenti di riappropriazione del sé, reagenti di coscienza, sintassi di una sintonia nuova tra corpo, voce e decisione.

    Il videoclip ufficiale che accompagna il singolo – diretto da Andrea Vanadia, con la fotografia di André Tedesco e il montaggio di Eleonora Cassaro -, evita l’iconografia folklorica edulcorata per sovrapporre corpi, terra, simboli ed elementi liturgici del Sud, come in un vero e proprio processo di svelamento in cui il rito filmato non rappresenta nulla, ma semplicemente accade.

    “Rituale” si inserisce nel progetto creativo più ampio in cui IBLA sta componendo un folk contemporaneo indisciplinato, una linea che collega tradizione orale, urban, elettronica, ritualità mediterranea e performance. Una forma espressiva che non mira al restauro, ma trasforma le rovine in nuovi orizzonti di possibilità.
    E mentre il tamburo batte, la voce prende corpo. Il resto, ancora, si deve compiere.

  • Quando la soglia si spezza: il nuovo singolo di Raffaele Poggio racconta la resa del corpo nell’era delle reazioni automatiche

    Un uomo, il suo telefono fuso al volto, come se l’interfaccia fosse diventata pelle, anagrafe. Lo sguardo smarrito in un’arena digitale dove nessuno ascolta nessuno. Si apre così “Dimmelo”, il nuovo singolo di Raffaele Poggio per Orangle Records/Mendaki Publishing. Una diagnosi istantanea del tempo in cui la conversazione pubblica è ridotta allo scontro, l’empatia scade a seccatura, intralcio, e la presenza altrui viene percepita come collisione e possibile intrusione.

    Un brano nato dall’osservazione del dissesto della parola, dove le frasi vengono scagliate come detriti, la compassione ha ceduto il posto a una finta interazione, senza un effettivo interesse nei confronti dell’interlocutore, e la presenza non coincide mai con il punto in cui accade la vita. Siamo ovunque, simultanei, raggiungibili, notificabili, visibili. Eppure raramente intenti a noi stessi nel tempo presente. In una frase, parliamo moltissimo, ci ascoltiamo pochissimo.

    Poggio, anziché descrivere il fenomeno da una posizione esterna, con tono giudicante, ci entra dentro perché l’ha attraversato, perché quel meccanismo gli si è rotto tra le mani. La scorsa primavera ha subito una battuta d’arresto, una malattia improvvisa lo ha costretto a frenare, interrompere: un corpo che dichiara sciopero e dice basta, mentre tutto intorno tutto chiede accelerazione e disponibilità costante. Nessuna lezione edificante, nessun risarcimento consolatorio: un arresto. Netto.

    Anni trascorsi a controllare lo sguardo altrui, a misurare il proprio peso con un indice esterno, a presenziare ovunque — tranne nella stanza meno affollata di tutte, quella senza spettatori, senza notifiche, senza giudici. La stanza dove la domanda non è come sembro, ma come sto. La malattia ha fatto precipitare i decibel, abbassando drasticamente il volume. Ha tolto intermediari, aspettative, maschere sociali e qualsiasi tipo di sovrastruttura, riportando il discorso al suo punto di origine: il corpo, il respiro, la verità più scomoda da eludere.

    A fare da contesto al brano non c’è un sentimento generico di saturazione digitale, ma un fatto osservabile: negli ultimi anni la conversazione in rete si è contratta, polarizzata, irrigidita in schemi rapidi — reazione, schieramento, sentenza. I commenti superano sistematicamente la lettura dei contenuti, i thread accorciano il pensiero a etichetta, la risposta arriva prima della comprensione. L’infrastruttura del confronto si misura in velocità, non in scambio costruttivo. In questo frangente, “Dimmelo” offre una cartografia dell’impatto, a partire da un singolo individuo, un singolo corpo, un singolo cedimento.

    Colpisce che il brano esca proprio mentre il consumo di contenuti supera la soglia dell’interazione reale: le persone scorrono, scrollano e archiviano più di quanto si fermino ad approfondire, reagiscono più di quanto rispondano, rispondono più di quanto leggano. Un ecosistema che produce soggetti visibili, ma raramente presenti. Poggio prende questa immaterialità e la riporta a un metro non discutibile: un fisico che a un certo punto si arresta. Niente allegorie. Un limite. Tangibile.

    Il valore del progetto sta proprio nella scelta dell’unità di misura. Mentre ogni cosa viene tradotta in impression, visualizzazioni, reach, reazioni, “Dimmelo” sposta il contatore sull’unica variabile che l’algoritmo non può quantificare: il corpo, quando chiede tregua. La narrazione smette di essere un’osservazione sociologica svolta da lontano perché non parla della rete, ma di ciò che la rete non registra: ciò che accade quando il pubblico si spegne e resta solo una persona, seduta con il proprio silenzio.

    Non è un caso che la traccia non sia un atto di accusa, né un rifiuto del digitale. Poggio non smonta il sistema, non finge di starne fuori. Ne mostra la soglia di tenuta, il suo punto di interruzione. Quello in cui il pubblico e il privato collidono senza camuffamenti, la performance non ha più terreno dove appoggiarsi, l’immagine finisce e resta soltanto il peso reale delle cose.

    “Dimmelo” svela una microstoria del nostro tempo, perché anziché rappresentare la piccola bandiera di un singolo, funge da termometro di un clima, quello in cui l’intensità dell’esposizione supera la capacità di assorbimento. Un clima che non esplode mai del tutto, ma si manifesta in segnali minimi: un’interruzione, una pausa forzata, un ritmo cardiaco che modifica la scaletta.

    Il brano condensa tutto in una frase, la frase:

    «Non importa se cadi, basta che non mi sfiori»

    Sette parole che descrivono la grammatica relazionale di questi anni: il dolore tollerato a distanza, la fragilità altrui accettata come notifica, mai come contatto. Poggio non accusa e non si assolve: si include nel quadro e lo espone. Prende atto del nuovo contratto sociale non scritto: cadi pure, ma fora dall’inquadratura. Meglio il rumore bianco della connessione permanente che la scossa viva di una presenza non filtrata. Meglio aggiornarsi che attraversarsi.

    È qui che l’artista toglie ogni residuo teorico alla questione, perché invece di parlare del collasso digitale, parla del suo effetto più sottile: la progressiva abilità a non farsi toccare. A non farsi coinvolgere. A non farsi davvero trovare da nessuno, pur restando disponibili a tutti.

    «Il corpo, quando cede, è l’ultimo cancello – afferma -. È il punto in cui la discussione finisce. Stavo vivendo dentro un rumore che chiamavo continuità. Si era trasformato in una gogna di rendimento. La malattia ha avuto la brutalità del reset forzato.»

    “Dimmelo” diventa così la cronaca di un doppio cortocircuito, sociale e individuale: la tirannia dei numeri, l’autovalore misurato in algide percentuali, i silenzi interpretati come verdetti, le porte che non sbattono ma restano socchiuse — e proprio per questo feriscono di più. Una rincorsa ininterrotta al “meritare”, al non sembrare mai insufficienti, al non sbagliare mai il passo. Una rincorsa che porta a crolli psicologici e fisici, che erode anche l’area più sensibile, quella affettiva, a cui crollano le impalcature reggenti e circostanti.

    Ad amplificare il discorso è il social video ufficiale, firmato Knowhere Studios, in cui l’iconografia religiosa diventa la lente per raccontare il nuovo culto del giudizio perenne, un tribunale che non prevede assoluzioni. Nel video, lo smartphone non è accessorio, ma prolungamento biologico, epidermide innestata, secondo volto: uno strumento di connessione più potente della connessione stessa, simbolo di un potere che avvicina e al tempo stesso schiaccia.

    A livello sonoro, il brano — prodotto agli Head Studios di Torino da Luca Testa, composto con Riccardo Novarese e scritto dallo stesso Poggio a quattro mani con Matteo Ferrari — sceglie un pop elettronico pulsante, dove la partitura ritmica spinge in avanti anche quando il testo frena e ammette il cedimento. È un pezzo che invita al movimento ma non concede l’evasione: si balla, sì, ma con una lama di disincanto nel ritorno di cassa.

    Il brano entra nel percorso live THE ENERGY PARTY, dove l’artista mette in sequenza repertorio proprio e canzoni dagli anni ’70 ai 2000. Un metro comparativo tra l’immaginario di epoche che prevedevano inciampi, pause, sparizioni momentanee e un presente che ammette solo presenza continua, piena all’apparenza ma completamente svuotata nella sua essenza.

    “Dimmelo” si ferma esattamente nel punto in cui il corpo ha fermato tutto il resto. Per questo, non arriva come risposta, ma come inversione di domanda: anziché chiedere cosa stiamo guardando, chiede cosa stiamo disimparando a sentire. E lascia tutto sospeso, perché è lì che viviamo: in sospeso. Connessi ma distanti, visibili ma assenti, parlanti ma mai ascoltati e in ascolto. È un pezzo che non parla dal centro del palco, ma dal punto in cui le luci virano, si abbassano e mostrano il bordo delle cose. Quello dove il pubblico smette di essere folla e torna persona, una per una, senza schermo in mezzo.

    E in quel cambio di temperatura dell’aria, Poggio si allontana da prediche futili sulle disconnessioni salutari per portare una constatazione nuda, raccontando il momento in cui il sistema si inceppa – non quello digitale, quello corporeo. Perché il futuro della connessione non si decide nell’ennesimo aggiornamento di un’app, ma nel microsecondo in cui qualcuno, finalmente, alza lo sguardo e incontra, anziché identificare.

  • Come si racconta un addio oggi: la scelta sobria di Ardini

    Una tazza scheggiata sul tavolo: un dettaglio minimo, ma impossibile da trascurare. Non serve altro, a volte, per capire che qualcosa non torna e che una storia è giunta al suo compimento. Da lì riparte Lisa Ardini, voce calda dalle sfumature soul e timbro pieno che guarda alle radici black senza emularle, ma integrandole con piena coscienza espressiva. E lo fa con “Dolce Amaro”, secondo inedito prodotto da Alessio Bernabei che segna il passaggio dalle reinterpretazioni d’autore – “Come si cambia”, “Rolling in the Deep” – alla definizione di un linguaggio proprio.

    Il brano prende forma la scorsa primavera, in una fase di ricomposizione personale per l’artista, con la volontà concreta di riprendere i pezzi e rimetterli al loro posto, come chi ha pianto già abbastanza e ora sceglie di andare avanti.

    Lisa Ardini si discosta dalla narrazione struggente dell’addio tipica della grande ballata sentimentale e propria di un pop eccessivamente effusivo, per concentrarsi sull’urgenza di ritrovare i propri frammenti e riconciliarsi con sé stessi dopo aver avvertito il naturale smarrimento post-rottura. L’attenzione, qui, non è sulla storia che finisce, ma sul modo in cui si decide di attraversarla, metabolizzarla e superarla. Un nero su bianco per disciplinare il trauma anziché spettacolarizzarlo, che sposta il baricentro dall’evento alla sua elaborazione. Una scelta risoluta e controcorrente, che instaura una nuova, differente grammatica per raccontare il dolore, lontana dall’esposizione continua che la nostra epoca sembra richiedere. La sofferenza si restringe, si mette in ordine, e traccia il sentiero per l’unica affermazione possibile: «vado punto e a capo».

    Il passato si riduce all’essenziale, quel tanto che basta per non negarlo e non farsene travolgere. E poi, in quel «vivere in prigione», il brano mostra come anche l’attaccamento, a volte, possa stringere più di quanto sostenga.

    “Dolce Amaro” muove i propri passi in un territorio oggi poco frequentato: Lisa non cancella, non commenta e non idealizza. Sistema il possibile, riconosce la nostalgia, la lascia scorrere, e inizia a ricomporre sé stessa – «quello che voglio fare finalmente lo farò». Nelle sue parole non c’è nessuna promessa di rinascere dalle ceneri, perché rifiuta il cliché della fenice e della rivalsa teatrale, privilegiando il silenzio operoso del ripristino. Solo una constatazione: si può chiudere una porta senza far rumore.

    Anche oggi, dove saper chiudere senza mettere in risalto ogni evento che accade, è diventata una competenza. Non solo sentimentale: riguarda relazioni professionali, identità digitali, percorsi di vita. Il problema non è più tanto la capacità di iniziare, quanto quella di terminare senza distruggere. Di uscire da una stanza senza sbattere la porta, ma nemmeno lasciandola socchiusa per nostalgia.

    “Dolce Amaro” non propone soluzioni miracolose, ma registra un fatto: si può andare avanti. Si deve. E si può farlo senza trasformare ogni passo in contenuto, ogni lacrima in capitale narrativo.

    «Avevo bisogno di un taglio netto – dichiara l’artista -. Non di cancellare, ma di rimettere in fila ciò che restava di me. In studio con Alessio ho imparato a scegliere: meno parole, più verità. “Dolce Amaro” è il suono di quella scelta.»

    Ventisei anni, padovana, Lisa cresce con i classici anni Settanta/Ottanta che la madre le fa scoprire da bambina. Dal 2020 avvia un percorso formativo che allena voce e scrittura; nelle esibizioni dal vivo alterna piano e sax. Con “Dolce Amaro” prosegue la transizione dalle cover al repertorio originale, mantenendo una linea chiara: raccontare un’esperienza senza indulgere in facili espedienti o in artifici retorici.

    Questa direzione si traduce nella ricerca del senso ultimo dell’accaduto. La tazza resta scheggiata, ma si può scegliere di posarla e andare avanti.

  • Rock per il presente: “La Camera di Plastica” di Numa Nardoni

    C’è chi scrive canzoni. E poi c’è chi le vive, le incide da solo e le registra nella propria stanza. C’è chi si isola per malattia, e chi, in quell’isolamento, dà vita ad un’opera intera: tra febbre e ispirazione, con l’urgenza di chi non può tenersi dentro più niente. È quello che ha fatto Numa Nardoni, artista fiorentino, poliedrico e indipendente nello stile e nella forma, che in una settimana di malattia ha scritto il suo primo EP interamente autoprodotto, “La Camera di Plastica” (distribuzione Needa Records). Sette brani nati tra visioni febbrili e “suoni plasticosi”, con atmosfere digitali capaci però di raccontare una verità brutalmente umana.

    Canzoni che raccontano l’infanzia violata e la guerra (“Dormi”), la libertà di espressione identitaria (“Sei anche Michelle”), la deriva dei social network (“Sbatto”), fino al lato più oscuro e rabbioso dell’esistenza (“Syntheticpunk”).

    “La Camera di Plastica” non è solo un titolo: è lo spazio claustrofobico e creativo in cui Numa ha inciso e prodotto ogni nota, trasformando la costrizione in miccia creativa. “Plastica” come i virtual instruments con cui è stato registrato, ma anche come la condizione che viviamo ogni giorno, sospesi in una realtà artificiale, distorta, che perde consistenza e lascia spazio a un’umanità sempre più friabile e fragile. Dentro questa camera, Numa Nardoni canta il presente con uno sguardo consapevole, disilluso, senza compiacimenti.

    È rock, ma non solo. Dentro ci sono punk, synth, ironia e denuncia sociale.

    Un’opera disturbante, nonostante sia precisa in tutto: nei suoni, nei testi, nell’attitudine. Persino nelle imprecisioni volute, nelle sgrammaticature stilistiche che fanno parte del genere, e che arrivano dritte, come uno schiaffo. Un’opera che ha il sapore di quello che non si riesce a zittire, e che a volte fa male anche ascoltare.

    La cronaca sociale e politica si intreccia alla critica ai social network, al dolore delle guerre, al diritto di esprimersi senza maschere, fino alla rabbia più viscerale.

    L’EP si apre con “Vita decadente”, una fotografia sull’attuale stato del mondo, un’istantanea che sembra scritta per i titoli dei giornali di oggi: «Siamo croci su una vita decadente, siamo martiri su una vita decadente»

    Segue “Sbatto”, dove il bersaglio sono i social, capaci di trasformare la realtà in spettacolo e il dolore in intrattenimento: «Dietro lo schermo tu sei vero, è quando vivi che sei finto»

    Con “Sei anche Michelle”, Nardoni porta nella sua musica la libertà di espressione di un medico stimato che di notte diventa drag queen: una storia inventata ma plausibile, che parla di identità, coraggio e diritto di essere sé stessi.

    La traccia più lacerante dell’EP è “Dormi”, una ferita aperta in forma canzone, che tocca una delle immagini più dolorose del nostro tempo: le guerre che strappano i figli dalle braccia dei genitori – «Ti accarezzo, ti piango addosso, e adesso che non ci sei più ti amerò di più». Una ninna nanna funebre che è al contempo denuncia e carezza.

    Il disco prosegue con “Numa non mollare l’osso”, dove l’artista ribalta le frustrazioni della sua carriera in un pezzo testardo e diretto che graffia e non si scusa, e “In the Dark I Just Want to Smile Again”, una ballata elettronica inquieta e fragile, in bilico tra desiderio di luce e oscurità.

    Chiude l’EP “Syntheticpunk”, traccia in cui Numa si muove tra speranza e caos, tra sorriso e dolore, restituendo due facce della stessa inquietudine, figlia della contemporaneità.

    «“La Camera di Plastica” è il mio primo lavoro discografico in cui mi sento davvero soddisfatto – racconta l’artista –. L’ho scritto, prodotto e realizzato tutto da solo, senza nessun’altra mano. È nato dal dolore, ma anche dalla necessità di dire la mia, di fermare in musica ciò che stiamo vivendo. Non ho la pretesa di dare risposte, ma se chi ascolta si ferma un attimo a riflettere, ho raggiunto il mio obiettivo.»

    A dare forza al progetto anche l’aspetto visivo: un videoclip doppio che dà volto a due singoli dell’EP, “Numa non mollare l’osso” e “Sei anche Michelle”. Un concept che unisce due storie in un unico racconto visivo, con la regia di Gabriele Corsini e la partecipazione di Camilla Gai in un cameo, della drag queen Niccolò Gabbrielli e dei musicisti Foggy Biliotti (basso), Gianluca Polvere (tastiera), Leonardo Ignesti (chitarra) e Palmiro Santoro (batteria).

    “La Camera di Plastica” è tutto questo: una stanza chiusa da cui esce solo verità, distorta ma sincera. Un lavoro crudo, lucido, personale, che non cerca edulcorazione ma confronto. E che, nella sua forma più irregolare, ci riesce.

    A seguire, tracklist e track by track del disco.

    “La Camera di Plastica” – Tracklist:

    1. Vita decadente
    2. Sbatto
    3. Sei anche Michelle
    4. Dormi
    5. Numa non mollare l’osso
    6. In the Dark I Just Want to Smile Again (Jekyll e Hyde Speciale Halloween)
    7. Syntheticpunk (Jekyll e Hyde Speciale Halloween)

    “La Camera di Plastica” – Track by track:

    Vita Decadente. Il mondo brucia e la coscienza dorme. Una traccia che racconta il collasso sociale, tra religione usata come pretesto, politica come illusione e violenza ereditaria. Siamo croci, siamo martiri: vittime e carnefici di una civiltà alla deriva.

    Sbatto. Una raffica punk contro l’ipocrisia dei social network, dove l’identità si dissolve nel “girotondo del sociale”. Tra sarcasmo e furore, Numa denuncia lo scollamento tra apparenza e verità. “Me ne sbatto” diventa il nuovo mantra di sopravvivenza.

    Sei anche Michelle. Il manifesto queer dell’EP. Giulio di giorno è un medico rispettabile, di notte diventa Michelle, drag queen. Una canzone teatrale e dolceamara, che celebra la libertà d’espressione e la verità multipla che ognuno porta dentro di sé.

    Dormi. Straziante, viscerale. Un bambino ucciso dalla guerra, una madre che piange accarezzandone il corpo. Per l’ultima volta. “Dormi” è una ballata funebre che colpisce come una mitragliata al cuore. Il lutto è raccontato dentro, senza giustificazioni, senza retorica.

    Numa non mollare l’osso. Autobiografica, ironica, tagliente. Tra promesse mancate, manager truffaldini e tv che preferiscono chi si arrende, Numa racconta il suo percorso artistico senza sconti e senza censure. E sceglie la cosa più difficile: resistere.

    In the Dark I Just Want to Smile Again. Un’anima ferita che cerca di sorridere nel buio. Dr Jekyll prende voce in questa ballata elettronica inquieta e fragile, sospesa tra desiderio di luce e ombra. È il lato più vulnerabile e speranzoso di Nardoni, raccontato con un’intensità che sembra trattenere il respiro.

    Syntheticpunk. Il gran finale, affidato a Mr Hyde. Rumore, disagio, provocazione. Un flusso distorto dove il punk si fa cyber e l’umanità si fonde con la nevrosi. La traccia più estrema e teatrale dell’EP, specchio del caos contemporaneo.

  • Nella società che glorifica la riconquista e il controllo, c’è ancora spazio per una canzone che insegna a dire addio?

    Riconquistare, non arrendersi, “lottare fino alla fine”. Sono alcuni dei mantra che attraversano canzoni, serie TV, contenuti social. Mantra figli del nostro tempo, quello in cui l’amore, per essere considerato vero, pare debba saper resistere a tutto. Anche alla sua fine.

    Ma cosa accade quando la sua forma più alta si traduce nel saper lasciare andare, senza negare il legame e senza combatterlo?

    È in questo spazio – riflesso tra l’insistenza del trattenere e la grazia del lasciare andare – che nasce “Pioggia”, il nuovo singolo di Domenico Cuccarese. Un brano che comincia dove finisce la pretesa. Nello sguardo di due persone che si riconoscono per l’ultima volta.

    L’artista mette in discussione l’idea stessa di lieto fine: l’amore non come conquista, ma come misura del limite. Non ricerca la catarsi, ma accetta la sproporzione tra ciò che si prova per l’altro e ciò il tempo ci consente di vivere insieme.

    Ed è in quel margine sottile tra il sentirsi ancora parte di qualcosa e il sapere che non lo si è più che si muove “Pioggia”. Nella scelta, consapevole, di restare dentro quel vuoto, senza riempirlo di promesse.

    «Anche negli addii c’è dignità e poesia – spiega Cuccarese -. L’amore vero non sempre tiene unite due persone per tutta la vita, ma può finire bene. È questo che ho provato a raccontare: un amore che non si nega, non si sporca. Solo…si saluta.»

    Un cielo che lacrima, un silenzio che parla. Da sempre, la pioggia è la più umana delle metafore naturali: cade su tutti, senza distinzioni di alcun tipo.

    Nel brano, non è solo lo sfondo di un capitolo giunto a conclusione, ma la voce terza, una presenza che accompagna l’addio e ne custodisce la misura. È l’acqua che scorre e spinge in avanti senza negare il passato, che toglie peso alle parole e riporta tutto in scala.

    Nella storia della musica, la pioggia ha sempre rappresentato un confine: da “Rain” dei Beatles a “Set Fire to the Rain” di Adele, fino al recente “Rain On Me” di Lady Gaga, è simbolo di purificazione, rinascita, o disperazione.

    In questo progetto, è raccontata da un’altra prospettiva: non è un mezzo per liberarsi, né un elemento esterno. È la materia stessa del sentimento, la parte silenziosa di una storia che non cerca un seguito, ma una forma di quiete. La pioggia non promette: constata. Rende possibile la fine senza farla somigliare a una sconfitta.

    I social network ci hanno abituati a mostrare tutto, a spettacolarizzare ogni emozione e questo ci ha portati a dimenticare quanto conti restare in silenzio. Forse è anche per questo che lo cerchiamo tra i suoni: nelle gocce che cadono uguali per tutti, nel rumore di fondo che rasserena.

    Non a caso, i suoni della pioggia sono oggi tra i più ricercati nelle playlist di rilassamento e nei video ASMR, segno di un bisogno sociale di rallentare, di lasciare che le cose scorrano senza forzarle. Inoltre, è interessante notare come, nel nostro presente iperconnesso, la pioggia sia tornata come strumento terapeutico: le playlist di “rain sounds” sono tra le più ascoltate al mondo, a conferma di quanto il suono dell’acqua risponda al desiderio, sempre più diffuso, di imparare ad abitare e convivere con la malinconia in modo gentile. In questo senso, “Pioggia” intercetta una sensibilità contemporanea che va oltre la musica: quella del sentimento consapevole, che anziché travolgere, cerca comprensione e accettazione. Una riflessione sul tempo e sulla possibilità di viverlo senza pretendere di fermarlo.

    Da qui nasce la canzone. In una notte reale di pioggia, Cuccarese comincia a scrivere, con le gocce che scandiscono il flusso dei pensieri. Le parole arrivano quasi da sole, come se fosse l’acqua stessa a dettare il ritmo e i versi.

    «Quando la pioggia finirà ci diremo addio. Se questo è l’ultimo respiro, dammi un bacio amore mio». Al centro del racconto, un’immagine semplice e definitiva: due persone che si amano ancora, ma sanno che il tempo insieme è terminato. Non c’è rabbia, non c’è negazione. Solo il peso dolceamaro della fine.

    In un mercato saturo di storie d’amore estreme, Cuccarese propone un racconto inusuale: quello di un sentimento che non cede al dramma, ma accetta la propria conclusione con compostezza.

    Il videoclip ufficiale – diretto da R. Guglielmi, S. Cuccarese e D. Cuccarese – accompagna il brano tra sguardi trattenuti, movimenti rallentati e assenze a cui è necessario abituarsi. La pioggia è ovunque, come voce narrante invisibile, metafora di quello che è stato e che, ora, scivola via.

    Classe 1981, Domenico Cuccarese è un autore, compositore e producer con alle spalle un percorso che spazia dal pianoforte alla scrittura per altri interpreti, fino alla produzione in prima persona. Dopo anni passati dietro le quinte, ha scelto di cantare in prima persona le sue parole, anche a costo di esporsi.

    “Pioggia” ci porta a domandarci se sia ancora possibile raccontare l’amore senza doverlo salvare a ogni costo; una domanda che parla del nostro tempo, abituato a misurare i sentimenti in durata e non in verità. Nelle storie – reali o di finzione – l’amore deve resistere, sopravvivere, vincere. Cuccarese riconosce che fine non è sinonimo di fallimento, ma di accettazione della resa come forma di rispetto. Per sé e per l’altro.

    E ci ricorda che c’è un tempo per mostrarsi e uno per comprendere.

  • L’Italia che lavora in silenzio non finisce in trend, ma manda avanti il Paese. I RadioFrame21 le dedicano “Sporco West”

    C’è un’Italia che non finisce in copertina, che non vive di viralità, che ogni giorno fa i conti con fatica, sudore e piccoli traguardi. Un’Italia fatta di gesti, valori, mestiere. Di persone che si sporcano le mani per costruire qualcosa che rimanga nel tempo. È l’Italia di chi coltiva, ristruttura, resiste. È la storia di chi porta avanti il proprio lavoro in silenzio, e nonostante tutto, continua a tenere duro per un futuro migliore.

    A loro, a chi non ha tempo per i trend dei social network ma non ha mai smesso di esserci, i RadioFrame21 – duo cinematic-rock romano formato da Danilo Garcia Di Meo e Danesh Chillura – dedicano “Sporco West” (Label 33/Virgin Italia), un brano interamente strumentale, dal suono ruvido e diretto, che pone al centro la forza di una parte del Paese spesso dimenticata dalle cronache, ma che ogni giorno manda avanti comunità, territori e famiglie.

    Un racconto musicale senza voce, ma con un volto: quello di una giovane donna che – nel videoclip ufficiale presentato in anteprima nazionale su Sky TG24 – lavora con le mani, salda, assembla, si affatica. Senza mai fermarsi. Nessuna scena patinata, solo l’eroismo quotidiano di chi crea la propria storia senza postarla o cercare qualcuno che la racconti, mentre tutto intorno corre, cambia e dimentica.

    Ed è proprio l’assenza di parole ad aprire uno spazio nuovo: uno spazio in cui l’ascolto non è guidato, ma accade. E in cui chi guarda e chi sente è chiamato a riconoscere quello che spesso non si vede, ciò che non finisce sui giornali perché non fa scalpore, ma tiene in piedi una nazione intera: la dignità dei lavoratori che la sorreggono, tra erbacce da estirpare e sogni da dipingere.

    «Abbiamo immaginato un suono che rappresentasse il gesto fisico e quello simbolico – spiegano i Radioframe21 –. Per noi “Sporco West” è un piccolo omaggio a chi continua a costruire anche quando sembra non serva più. A chi resiste facendo, non solo parlando.»

    Un omaggio che arriva in un Paese dove il lavoro resta un’emergenza sociale: secondo l’ISTAT, nel 2023, il 7,6% degli occupati rientra tra i cosiddetti “working poors”, con punte oltre il 14% tra gli operai e stipendi che non arrivano ai mille euro al mese pur avendo un impiego stabile. Sono muratori, operai, braccianti, artigiani. Mani che reggono l’economia senza mai finire nei trend di TikTok.

    Dati che fotografano un’Italia in difficoltà, cifre dietro le quali ci sono volti, storie, famiglie.

    “Sporco West” se ne fa carico e li porta sullo schermo trasformandoli in immagini: il video, diretto da Danilo Garcia Di Meo – che oltre ad essere membro del duo è da sempre un autore attento alle realtà invisibili e marginali -, presenta una regia asciutta, documentaria, priva di concessioni estetiche: un piano sequenza narrativo che racconta il lavoro come forma di presenza, il corpo come luogo di costruzione, la musica come struttura portante.

    La protagonista non è il simbolo di un’eroina epica: è una donna che porta avanti la propria vita giorno dopo giorno, trovando energia e bellezza nei gesti più concreti. È l’incarnazione di chi contribuisce alla comunità senza mai finire nei titoli di giornale.

    “Sporco West” non è però solo immagini. È anche – e soprattutto – suono.

    La cifra distintiva dei RadioFrame21 è una miscela personale di rock, ambient, colonne sonore, chitarre ruvide e stratificazioni elettroniche. Nel brano, questa ricerca diventa un paesaggio sonoro di frontiera che parla di chi si muove ai margini, di chi sceglie di fare, anche quando nessuno guarda.

    «Volevamo raccontare la forza che sta nella straordinarietà dell’ordinario: la capacità di portare avanti i propri progetti, i propri sogni, nonostante gli ostacoli – concludono -. È la nostra idea di libertà: non quella dell’engagement, ma quella costruita con sudore, fatica e volontà.»

    “Sporco West” porta avanti l’identità dei RadioFrame21: un laboratorio cinematic-rock che unisce radici rock-blues ed elettroniche con un’anima legata al mondo delle colonne sonore.

    Forse la musica non cambierà il mondo. Ma può ancora rifletterlo. Per farci riflettere. “Sporco West” lo fa: senza parole, ma con tutto il necessario. Un videoclip, un suono, uno scorcio di quotidiano. Non ci sono supereroi: solo la fotografia di quello che viviamo e vediamo ogni giorno, ma a cui ormai non facciamo più caso.

    Nessuna retorica, nessuna morale. Solo una storia che ha il sapore della vita vera. E un brano che, per una volta, la segue.

  • La disciplina dietro la storia virale di Frenci, il pianista tetraplegico che ha conquistato l’Italia

    

    Aveva tre anni quando suo padre gli mise una tastiera sulle gambe. Oggi, Francesco Sicilia Gelsomino, in arte Frenci, ha 25 anni, scrive poesie, compone brani originali, suona per strada e ha emozionato l’Italia intera esibendosi su Rai 1 nel programma “Dalla strada al palco” con Nek e Bianca Guaccero, grazie al suo talento e al suo motto virale:

    «Credete nei vostri sogni, non negli incubi degli altri.»

    Nato con una forma di tetraplegia che lo costringe su una sedia a rotelle, Frenci non ha mai voluto compassione, privilegi né pietà. Ha cercato invece un modo per comunicare con il mondo. L’ha trovato nel pianoforte, che ha fatto suo reinventandone la tecnica, trasformando il limite fisico in una firma stilistica.

    «Mi muovo come un robot, ma ho inventato il mio modo di suonare. Lavoro con l’energia, i bassi, poche dita alla volta, ma con tutta l’anima» – racconta.

    Un’anima che non ha mai smesso di vibrare e di irradiare luce, e che lo ha condotto dalla strada al palco, letteralmente.

    Ma prima di arrivarci, c’è stato un momento che avrebbe potuto spegnere tutto: la perdita improvvisa del padre, il primo a credere nella sua musica.

    «Ho pensato di mollare tutto. Ma poi mi sono detto: lui non avrebbe voluto così. Ho deciso di reagire: ho preso il mio pianoforte e sono andato a suonare per strada, a Bologna, come volevamo fare insieme.»

    Dopo quell’estate passata a suonare da busker, inaspettatamente, arriva la chiamata da Rai 1: una redattrice del programma lo invita ai provini. La sua storia viene scelta, i suoi brani vengono arrangiati dal maestro Luca Chiaravalli. Le sue poesie vengono lette da Beppe Fiorello e Luca Argentero, e Frenci suona con Nek davanti a milioni di spettatori.

    «Il ragazzo che si vergognava delle sue mani era appena andato in onda su Rai 1 – prosegue -. Non ci potevo credere. Ma la cosa più incredibile è l’affetto delle persone. La gente mi ferma per strada, mi scrive, mi ascolta.»

    Da quel momento in poi, la vita artistica di Frenci ha preso slancio. Ma al centro di tutto è rimasto il suo credo più profondo:

    «Voglio essere trattato come tutti gli altri. Oppure avere in cambio la libertà di essere diverso.»

    Un principio che Frenci traduce in ogni cosa che fa. Scrive, suona, compone, riflette. Ma soprattutto vive. In ogni sua composizione musicale e poetica traspare una consapevolezza pena, mai rabbiosa o vittimistica, e un’energia rara.

    Il suo brano più rappresentativo si intitola “Voice in Space”, un’opera che lui stesso descrive così: «Parla di quando ti manca il fiato. Nello spazio non c’è suono, ma la musica riesce a farci sentire meno soli.»

    Tra le sue poesie più note, c’è invece “Fiorire”, che Frenci definisce «motivazionale e autoironica», una riflessione sulla diversità affrontata con una maturità disarmante: Tutti i fiori vogliono fiorire. Una frase semplice, eppure potentissima.

    Frenci ha imparato a suonare con ciò che aveva: le dita che riesce a controllare, un corpo contratto dalla tensione muscolare. Ma anche una mente che non accetta di arrendersi. Si è ispirato ai monaci del Settecento che suonavano il fortepiano con tre dita. Ha creato un linguaggio musicale personale, ibrido, istintivo, pop, dove ogni nota è anche, e prima di ogni altra cosa, presenza, messaggio, testimonianza e libertà.

    Oggi Frenci continua a suonare per strada e sta lavorando a un progetto musicale e lirico che mette insieme le sue due anime, quella del pianista e quella del poeta. Le sue parole, che sembrano tratte da un romanzo di formazione, sono già diventate citazioni virali:

    «La Z è l’ultima lettera dell’alfabeto, ma senza di lei l’alfabeto non avrebbe senso»

    «L’arte è della passione che non sa aspettare, di chi la vuole nella propria vita perché senza non vede domani»

    «La mia fobia di cadere all’indietro non è un problema: devo solo guardare avanti»

    Frenci non si definisce un esempio, e nemmeno un simbolo. Ma ogni volta che suona, scrive o semplicemente si racconta, ricorda a chi ascolta che la fragilità non è un difetto, ma un’altra forma di forza.
    E che la diversità, quando è accolta e vissuta con libertà, può diventare una delle spinte creative e sociali più significative del nostro tempo.

  • Elegio racconta l’overthinking senza descriverlo: il disagio performato, non spiegato

    L’overthinking non è più una parola da social, ma un ecosistema mentale che definisce una generazione in bilico tra ipervigilanza e auto-sabotaggio. Una condizione quotidiana che si insinua in chi convive con la pressione di dover essere già “formato”, già “all’altezza”, già “risolutivo”, prima ancora di aver avuto il tempo di sbagliare. È una postura permanente, che consiste nel pensare troppo prima ancora di vivere, nell’interiorizzare la pressione prima ancora del fallimento. E in questo territorio, in questo spazio mentale saturo e quasi claustrofobico, nasce “Overthinking” (Starlight Records, Daylite Lab e The Orchard), il nuovo progetto di Elegio. Un brano che non infantilizza, ma circoscrive la crisi delle aspettative attraverso una disamina sonora che ne isola la matrice causale, la cui unica misura è la verità del contenuto.

    Elegio si colloca fuori dalla grammatica trap italiana dominante e importa la Baton Rouge, corrente pressoché inedita nel mercato nostrano, nata nell’omonima capitale della Louisiana e caratterizzata da un’impalcatura sonora minimale, mai accomodante. Mentre il mercato attuale tende a convergere su produzioni levigate, formule prevedibili e algoritmicamente ottimizzate, Elegio e il produttore Kidd Reo utilizzano la purezza gritty della Baton Rouge per creare una perfetta coerenza sonora con un testo che parla di traumi. Si tratta dell’introduzione di un sottogenere sinora inesplorato, che posiziona Elegio in un punto di assoluta discontinuità rispetto all’omologazione.

    Un’operazione culturale tutt’altro che convenzionale: la Baton Rouge è una delle pochissime scene rap contemporanee ancora non normalizzate dall’industria: una matrice sonora brutale, non conciliativa, nata in territori ad alta instabilità sociale, dove il suono non viene rifinito ma lasciato irregolare, imprevedibile. È quanto di più distante esista dalla trap italiana post-Spotify, realizzata spesso per trattenere l’ascolto, non per disturbare.

    Negli Stati Uniti, artisti come Young Bleed, NBA YoungBoy, Kevin Gates e Boosie BadAzz hanno costruito un impero globale senza mai passare dalla “pulizia commerciale”: numeri da record, ma con un linguaggio volutamente non addomesticato. Questa resistenza alla codifica algoritmica è ciò che fa della Baton Rouge una delle poche scene ancora non assorbite dal mercato, perché presenta un sound che non dovrebbe funzionare, e proprio per questo oggi rappresenta un’anomalia dirompente.

    Elegio, che arriva da Olbia, non emula un’identità che non gli appartiene, ma importa quel linguaggio nella sua funzione originaria. Non lo europeizza, non lo ammorbidisce, bensì lo adotta come la sua chiave di lettura del mondo, maneggiandolo come un detonatore verbale. Quella che propone non è una semplice alternativa stilistica, ma una forma narrativa autonoma, sinora solo richiamata solo in superficie.

    Nel testo, l’overthinking si manifesta con un distacco lapidario, senza essere descritto. È performato mentalmente e in tempo reale nei versi del brano:

    «Ho tagli che non cureranno le banconote»

    Una condanna esplicita dell’illusione meritocratica che identifica il successo economico con la felicità, dove l’arricchimento fallisce come antidoto al dolore.

    «Con questo brano – dichiara l’artista -, non volevo raccontare l’ansia, ma far capire come ti possiede nell’istante in cui credi di controllarla. L’overthinking non è un problema che hai, un’emozione, ma una fabbrica di ossessioni, un sistema che ti tiene in ostaggio: ti convince, con lucida follia, che tutto stia per esplodere. Il pezzo è la mia autopsia di uno stato mentale.»

    Elegio decostruisce il disagio per una generazione, la sua, che viene spesso rappresentata come fragile o eccessiva. Lui ci dimostra un’altra cosa: che esiste una forma di intelligenza emotiva fredda, analitica, capace di studiare il dolore senza spettacolarizzarlo né assolverlo.

    Il risultato è un’anomalia necessaria nel panorama musicale italiano, un suono che rifiuta l’accomodamento per la sua natura intrinsecamente non conciliativa. Elegio inietta una forma narrativa nuova, autonoma, dimostrando come la resistenza all’omologazione sia una mossa strategica di discontinuità assoluta più che paradigma di nicchia. Questa operazione analitica smonta l’ossessione per lo standard e per la “pulizia commerciale” imposta dagli algoritmi, una scelta di campo che sposta l’ansia dalla sua retorica.

    “Overthinking” è l’affermazione che una generazione, lungi dall’essere fragile, possiede la capacità di decostruire il proprio disagio, trasformando la pressione claustrofobica in un lessico la cui unica misura resta la verità del contenuto. È l’introduzione di una scena che, anziché ammorbidirsi, adotta un linguaggio nella sua funzione originaria, riaffermando che i tagli veri non potranno mai essere curati dalle banconote.

  • Un anti-eroe per la generazione disillusa: “Black Crow” di Anna Turrei veglia su un presente smarrito, ma ancora in cerca di giustizia

    C’è un mondo, oggi, che si sente fuori posto. Giovani e adulti accomunati da un senso diffuso di sfiducia, isolamento, saturazione. A questo mondo parla “Black Crow”, il nuovo singolo di Anna Turrei per Delma Jag Records, che per la prima volta sceglie l’inglese per raccontare il lato della sua identità artistica più scuro, più internazionale e decisamente più radicale.

    Non si tratta di una semplice svolta stilistica, ma di un percorso narrativo dentro il disagio di un’epoca che ha smarrito fiducia e direzione. Un disagio che non si consuma nel nichilismo, ma si traduce in conflitto interno, per poi trasformarsi in una forma di giustizia personale, sussurrata, costruita tra le pareti del proprio buio.

    Nella canzone, il corvo nero non è solo un simbolo dark. È un personaggio vero e proprio, un anti-eroe notturno che veglia mentre il mondo dorme. È la proiezione di chi, pur sentendosi ai margini, non rinuncia a cercare un significato, una direzione, una forma di giustizia possibile.

    È indicativo che ad incarnare questo ruolo non sia un essere umano, ma un animale. Forse perché – come recita il brano – «Animals are the real superheroes, they give true love» («Gli animali sono i veri supereroi, loro danno il vero amore»). Una frase che fa intuire sfiducia verso l’umanità, ma anche una scelta precisa: oggi, a molti, manca un modello reale a cui guardare. A cui ispirarsi. E allora quel modello si inventa. Si immagina. Il corvo nero diventa così la figura che non c’era: emblema di forza che non si impone, ma resiste, paziente, nell’ombra. Vigile, solitario, incorruttibile. Non ha bisogno di mostrarsi; agisce sul piano simbolico, quasi come una sentinella morale, un alter ego per chi si sente costantemente a disagio con ciò che lo circonda.

    «Revolution starts from our hearts / taking our values out of the drawer»
    (La rivoluzione comincia dai nostri cuori, tirando fuori i nostri valori dal cassetto)

    In un tempo in cui il termine “rivoluzione” è spesso parola svuotata o abusata, il verso chiave del brano rimette al centro la sfera interiore, il cambiamento personale come risposta etica a un mondo disilluso.

    Non c’è ideologia, né militanza, solo un gesto – semplice in apparenza, ma difficilissimo da compiere davvero: riaprire quel cassetto dove abbiamo riposto e chiuso i nostri valori, quelli autentici, quelli dimenticati.

    Nessun riferimento politico, nessuno schieramento o visione sociale strutturata, ma comunque una presa di posizione. A livello esistenziale, morale, spirituale. È una forma di rivoluzione che non passa dalle piazze, ma dal recupero della propria coscienza etica, dalla scelta di non restare anestetizzati di fronte al cinismo generalizzato.

    In un contesto generazionale segnato dalla stanchezza civile, dal rifiuto della retorica, “Black Crow” propone una via alternativa: l’intimità come forma di disobbedienza, un modo per restare sensibili in un tempo che narcotizza tutto. È anche da qui che si capisce perché Anna Turrei non è semplicemente una giovane cantautrice emergente, ma una voce che si impegna a riportare senso alle parole che usiamo ogni giorno.

    Ed è da questa posizione che il brano si apre a un’altra dimensione:

    «It’s a world connected just online, face to face can’t communicate. They retreat into their shell, I no longer have faith in the human race»
    (È un mondo connesso solo online, faccia a faccia non si riesce a comunicare. Si chiudono nel loro guscio, io non ho più fiducia nel genere umano)

    Qui il tono cambia, si fa più amaro, più diretto. Ma è proprio questa schiettezza, quasi ingenua nella sua onestà, che arriva dritta al punto.
    Non si tratta della solita critica all’iperconnessione: è la denuncia di chi constata una frattura profonda, quasi irreversibile, tra la vicinanza del digitale e la distanza delle coscienze. La digitalizzazione dei rapporti ha sostituito la connessione umana con l’interazione di rete, lasciando dietro di sé un vuoto affettivo che nessun like può riempire. Un’intera generazione è cresciuta tra schermi e filtri, e ora fatica a riconoscersi nel contatto diretto, nel volto dell’altro.

    Questa constatazione, però, non si traduce in passività: in “Black Crow”, anche chi ha perso fiducia cerca giustizia. Anche chi non si fida più, continua a vegliare sul mondo. In questo senso, il corvo nero non è il simbolo di una chiusura, ma di una volontà ancora accesa. «I am reborn like a phoenix» («Rinasco come una fenice»): una fenice che sceglie il coraggio della solitudine alla complicità dell’apatia.

    «Black Crow is coming, Black Crow is here» («Il corvo nero sta arrivando, il corvo nero è già qui») – recita il ritornello – e non è una minaccia, ma un annuncio: il ritorno di chi ha scelto di non arrendersi.

    Ed è anche il ritorno di un’estetica che sembrava marginale, ma che oggi è ovunque: il gotico, il dark, l’immaginario notturno, tornati centrali nella cultura pop contemporanea. Dopo l’onda lunga di Billie Eilish, il successo planetario della serie Netflix “Mercoledì” e il revival di atmosfere cupe nella musica e nella moda, “Black Crow” arriva nel momento esatto in cui il buio ha smesso di fare paura ed è diventato un vero e proprio linguaggio. Un universo che sembra uscito da un graphic novel, ma che parla con la lingua della psicologia contemporanea.

    Corvi, fenici, simboli archetipici, creature silenziose e notturne: la nuova generazione non si racconta più attraverso la luce, ma attraverso le zone d’ombra, quelle che costringono a guardarsi dentro, non fuori da sé.

    Anna Turrei entra in questo panorama con una voce che non asseconda il gusto del momento, ma l’adesione sincera a un’estetica che coincide con uno stato d’animo condiviso da molti.

    In un tempo musicale che spesso confonde l’introspezione con il manierismo e il disagio con il marketing dell’oscurità, “Black Crow” si distingue perché non vuole creare stupore, ma riflessione e dialogo. E lo fa senza spettacolarizzare il dolore e senza nascondere le fragilità che abitano e attraversano ciascuno di noi.

    È un pop che non si limita ad evocare simboli ma li vive e li assume come protagonisti di un’epoca in cui tutti vogliono esserlo, ma pochi accettano di assumersene il peso e la responsabilità. E che trova nella lingua inglese non un vezzo internazionale, ma una scelta narrativa necessaria, per parlare da dentro un’identità che si sente parte di un disagio più grande.

    “Black Crow” non cerca vendetta in senso stretto, ma dignità, e in una contemporaneità dominata dall’apatia e dal disincanto, ci ricorda che anche nella solitudine più cupa può nascere un’idea di giustizia.